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La vita come prima opera d’arte
Quella del rapporto fra inconscio e creatività è un’antica e controversa questione, da sempre postasi con forza all’attenzione degli osservatori. Quella, più in particolare, del rapporto fra psicolabilità, psicosi latente, ovvero stato «borderline» da una parte ed espressività artistica dall’altra è invece questione rimasta spesso all’ombra dei grandi fraintendimenti culturali e di un ostracismo sociale non di rado comprendente anche l’internamento manicomiale (ricordate il film sulla scrittrice Camille Claudel?).
I nostri tempi ci hanno posto con forza le vicende della
poetessa Alda Merini, anche se stento a considerare il suo caso come uno dei
più autorevoli dal momento che l’internamento è andato assumendo una funzione
di catalizzatore promozionale alquanto debordante rispetto ai meriti intrinseci
della sua produzione letteraria. Casi tragicamente celebri a parte, va tenuto
presente che l’artista (nell’accezione più ampia del termine) è necessariamente
una figura umana complessa, con una logica e un apparato psichico tutti suoi
particolari, evidentemente non assimilabile alla tipologia della «normalità».
Più generalmente parlando, va ricordato che il rapporto
tra questo substrato di complessità psichica e la creatività è stato per molto
tempo considerato più alla stregua di fenomeno morboso che non come indicatore
umano, e quindi intellettuale e spirituale, di tutto rispetto e dignità. Solo
negli ultimi anni è emersa, anche in Italia, una consapevolezza specifica su
questo delicato gioco dinamico e si assiste a una proliferazione di
apprezzabili studi sull’argomento. Stanno fiorendo dibattiti, convegni e
riviste specializzate che, partendo dall’osservazione diretta del fenomeno
della creatività artistica, disaminano gli intricati rapporti intercorrenti fra
questa e la psiche: il tentativo è quello di analizzare le interrelazioni
profonde fra le due dimensioni senza assumere, però, pregiudizi negativi né,
tanto meno, positivi (ci mancherebbe altro che si avvalorasse un’opera
artistica perché prodotta da una mente eccentrica, da uno spirito provato, e
addio al minimo senso critico!). La sfida, più precisamente, è quella di
individuare la sottile linea di demarcazione che, a parità di stato psichico,
di carico ansiogeno-depressivo, di disturbi d’origine, fa sì che un artista resti
intrappolato nel tunnel dell’autodistruzione (di cui la volontà di suicidio non
è che l’apice visibile) e che un altro escogiti invece una sua propria,
autonoma (quindi autenticamente creativa), modalità di sopravvivenza e di «scatto» esistenziale.
Fra gli
psicoanalisti italiani del nostro tempo più impegnati sull’argomento – che non
a caso sono anche fini conoscitori di arte, letteratura ed estetica – possiamo
citare Sergio Premoli, Gustavo Pietropolli Charmet, come già Franco Fornari
(fondamentale, nelle sue teorizzazioni, il valore dell’aggressività) e Cesare
Musatti (specie per i suoi studi sulla percezione e la forma). Ma fondamentali
restano gli approdi delle menti più illuminate della British Psycho-Analytic
Society; oltre a Freud (teoria dell’angoscia, dualità dell’istinto di vita e di
morte) vanno ricordati Melaine Klein, Edward Glove e, soprattutto, Donald Woods
Winnicott: il gioco, lo spazio transizionale e l’esperienza culturale, la
concettualizzazione del vero e del falso «Sé», l’ambiente «facilitante» e il
significato di «normalità» rimangono concetti insostituibili nell’ambito degli
studi sulla creatività e sull’arte. M. Masud R. Khan, uno degli psicanalisti
contemporanei più prestigiosi, rimarrà probabilmente il più brillante
continuatore dell’opera winnicottiana sulla creatività. È a Masud Khan che si
deve la formulazione del «rimanere a maggese»: requisito indispensabile, questa
condizione di ascolto interiore, di quiescente solitudine, per rendere creativa
primariamente la relazione sia col proprio «Sé» che con l’altro da «Sé», e
quindi con la stessa pulsione artistica.
È a queste intuizioni geniali di Winnicott e del suo continuatore, veri e propri artisti dell’anima e dell’avventura della vita interiore, che la moderna psicoanalisi sulla creatività – dopo la denuncia della ridondanza dei falsi miti, dopo aver preso le distanze dal confezionamento del tempo libero dell’uomo, dall’industria della distrazione a tutti i costi – sta anche in Italia attingendo a piene mani. Si comincia forse a capire che la creatività, prima ancora che un quadro, una scultura, una sinfonia, è innanzitutto un modo di essere e di guardare al mondo esterno, è un modo, come lo stesso Winnicott amava ripetere, di «godere nel respirare». Perché «La creatività … è un universale. Appartiene al fatto di essere vivi».
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- l’Informatore Vigevanese, 21 marzo 1996
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