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ARTE E LETTERATURA
____DALL’ARCHIVIO DI COMUNICARECOME____
Saggi per Inserti Cultura
Salvatore Quasimodo.
L’impeto nella storia, l’intuizione oltre il
tempo.
Vita e
opere poetiche.
95 anni fa
nasceva a Modica (Ragusa) Salvatore Quasimodo. Visse l’infanzia e l’adolescenza
fra Messina e Palermo seguendo il padre, ferroviere, nei suoi frequenti
spostamenti. Diplomatosi geometra, si iscrisse alla Facoltà di Ingegneria di
Roma, poi abbandonata a causa di difficoltà economiche. Impiegato, per dodici
anni, al Genio Civile, si dedicò in seguito all’insegnamento. I suoi diversi lavori
lo portarono quindi a vivere in diverse regioni italiane. A Firenze, nel ’29,
‘Totò’ fu presentato dal cognato Vittoriani al gruppo degli intellettuali di
“Solaria”: proprio sull’omonima rivista venne pubblicata Acqua e terre,
la sua prima raccolta di poesie, cui seguirono Oboe sommerso e Odore
di eucalyptus e altri versi nel ’32. Nel ’34 si stabilì a Milano. Qui, dopo
un breve periodo di attività giornalistica presso la redazione de “Il Tempo”,
ottenne la cattedra di letteratura italiana al Conservatorio G. Verdi: era il
’41, e alla “chiara fama” sancitagli col prestigioso conferimento aveva
decisamente contribuito la lunga eco del successo di Erato e Apollion,
uscito nel ’36, col quale era stato consacrato come uno dei massimi esponenti
dell’ermetismo. Nel ’42 venne pubblicata Ed è subito sera (in cui
confluirono le “Nuove poesie, 1936-1940”). L’entusiastico e diffuso
accoglimento dell’opera decretò per Quasimodo l’indiscusso prestigio nel
panorama letterario.
La guerra
e la resistenza determinarono un accostamento sempre più ravvicinato alla
politica: l’impegno si manifestò, oltre che nell’adesione per qualche tempo al
P.C.I., in una precisa esigenza di letteratura “impegnata”. Nella raccolta Con
il piede straniero sopra il cuore, che uscì nel ’46, l’ispirazione è
fortemente orientata agli ideali della Resistenza. Seguirono Giorno dopo
giorno nel ’47, La vita non è un sogno nel ’49, Il falso e vero
verde nel ’56, La terra impareggiabile nel ’58, sempre molto
significative di quella esigenza d’impegno. Un’esigenza tanto intimamente
sentita che Quasimodo volle ribadire in occasione della consegna del Premio
Nobel per la Letteratura, nel ’56, col discorso Il poeta e il politico che
affermava la necessità di una responsabilizzazione politica di tutta la letteratura
per una “ricostruzione dell’uomo frodato dalla guerra”. Punti forti di questa
responsabilizzazione: il contenuto e una “nuova tecnica che prelude a un
linguaggio concreto, che riflette il reale”.
Nel ’66
uscì la raccolta Dare e avere, ultima opera del poeta prima della morte
avvenuta a Napoli, nel ’68.
La
parabola etico-poetica.
Raffinato
cantore di un bene perduto, di quel paradiso mitologico rappresentato dalla
Sicilia e dall’infanzia, è il Quasimodo dell’esordio in Acque e Terre (’30):
A te ignota è la terra / dove ogni giorno affondo / e segrete sillabe nutro,
sospirano i versi di “Vento a Tindari”. Un Quasimodo assertore del valore
magico della parola poetica, tutto teso verso una vibratile armonia di ritmi e
suoni, secondo un sentire che sempre più, in Oboe sommerso (’32) e
esemplarmente in Erato e Apollion (’36), venne risolvendosi nella più
alta lezione dell’ermetismo: con un rigorismo e un preziosismo che, ben lontani
dal cliché della “torre d’avorio”, definirono una presa di distanza dallo
sbando e dal chiasso del periodo storico, affidandone l’elaborazione al filtro
di una parola sapientemente scarnificata. Una parola che il Quasimodo avvertirà
prima di tutto come dono eccezionale e tremendo, una sorta di missione laica
per le forti implicazioni di responsabilità nel disvelare alla coscienza degli
altri uomini ogni bagliore di verità captata o anche solo messa a fuoco. Non
mancarono, tuttavia, le discordanti reazioni di chi vedeva nella parola
riecheggiata e flautata del poeta siciliano un realismo che rimaneva
sostanzialmente “anemico”; più dialettici altri critici, che individuarono in
quella poetica un dualismo tra “dato e mito”, come Barberi Squarotti (1).
La
visibilità della svolta quasimodiana verso un “notevole anche se non esclusivo
impegno di poesia civile” (G. Contini) si ebbe nel ’46 con l’uscita de Con
il piede straniero sopra il cuore, la raccolta poetica ispirata ai valori
della Resistenza, cui nello stesso decennio seguirono Giorno dopo giorno (’47)
e La vita non è un sogno (’49). Il cordone con la poesia dell’Arcadia
era oramai decisamente reciso: i versi di Quasimodo avevano assimilato tutto il
respiro corto della morte, la palpitazione della desolazione, sormontandosi a
colpi di lucido sconforto: Non ho più ricordi, non voglio ricordare; / la
memoria risale dalla morte, / la vita è senza fine. Ogni giorno / è nostro.. (“Quasi
un madrigale”), e la visione della carneficina non dava tregua alla sua
coscienza, convinta più che mai di dover tramandare fino in fondo la memoria
del dolore, prima che gli uomini, fosse solo per pietà, si disponessero a
dimenticare e perdonare (Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.)
Sottile e lapidaria, la parola di Quasimodo va così sempre più disponendosi in
orditi cronachistici per narrare il dramma delle esperienze umane del suo
tempo. Come l’esperienza di Auschwitz in Il falso e vero verde (’56), e
come quella dei nuovi orrori del tecnicismo, delle bombe atomiche, della
moderna “Arca della distruzione”, in La terra impareggiabile (’58). Ed è
proprio in quest’ultima raccolta che Quasimodo tornerà, forte d’un rinnovato
vitalismo, a riallacciarsi alle memorie e alle suggestioni della propria isola,
con un accento lirico giudicato fra i più convincenti del suo itinerario
poetico, specie nelle rivisitazioni di sapore più intimistico come quella
dedicata “Al Padre”: Dove sull’acque viola / era Messina, tra fili spezzati
/ e macerie tu vai lungo binari / e scambi col tuo berretto di gallo isolano.
Il terremoto ribolle / da tre giorni, è dicembre d’uragani / e mare avvelenato.
(..) (..) Oscuramente forte è la vita. Su tanto macerante contrasto
(rigetto del bellicismo tecnologico/passione struggente per la propria terra)
tuttavia, ecco sopraggiungere il passo di una presenza pacificatrice: la
fiducia nell’intelligenza laica.
Una
presenza che aprirà sempre più il varco a una nuova forma di saggezza, quella
che nel ’66, nel viaggio poetico-biografico di Dare e avere, mostrerà il
timbro misurato d’una coscienza ormai approdata a una serena semplificazione: Scrivo
parole e analogie, tento / di tracciare un rapporto possibile / tra vita e
morte. (“Il silenzio non m’inganna”); Forse muoio sempre. / Ma ascolto
volentieri le parole della vita / che non ho mai inteso, mi fermo / su lunghe
ipotesi. (“Ho fiori e di notte invito i pioppi”). È lo sguardo di un uomo
che sfiora tranquillo il frutto di una volontà che non ha mai risparmiato le
sue forze ma, ormai, anche cosciente di aver detto tutto quello che di
essenziale c’era da dire, forse già nel presentimento della morte che, col
colpo letale di un secondo infarto, lo sorprenderà ad Amalfi solo due anni
dopo.
Una mente
eclettica, una personalità difficile.
Non si può
poi non ricordare l’intensa attività svolta da Quasimodo, parallelamente a
quella strettamente poetica, di traduzione: quella dei Lirici greci (’40)
soprattutto, sommamente stimata dalla critica per l’equilibrio di purezza e di
semplicità. A questa seguirono traduzioni di Omero, Virgilio, Catullo,
dell’Antologia Palatina, come pure di Shakespeare e di Neruda, grande
estimatore e amico del poeta siciliano.
Pure, non
può essere taciuta la fervida produzione di critica teatrale svolta da
Quasimodo per “Omnibus” e “Il Tempo”: quasi centocinquanta articoli che coprono
dieci anni di teatro, raccolti nel ’61 nel volume Scritti sul teatro.
Una
produzione che non si piegò mai alla semplice divagazione né al facile
entusiasmo per gli avanguardismi puramente formali (2).
Presentazioni
di mostre, apporti critici a prestigiosi cataloghi, presenze attive in convivi
artistici: Quasimodo frequentò e divenne amico di diversi pittori e scultori
del suo tempo (fra i quali Agenore Fabbri, Lucio Fontana, Wilfredo Lam).
Ambiente particolarmente congeniale, quello artistico, per dar sfogo agli
impulsi della sua natura istrionica, suscettibile, come quello - testimoniatoci
da una fiorita aneddotica – che lo ritrae commensale difficilissimo,
intransigente come un giustiziere a tavola, fino a scaraventare i piatti nelle
sale dei ristoranti. Ma anche piacevole compagnia, con le sue battute argute,
la sua sincerità estrema. E capace di profonda generosità con gli amici-artisti
più disinteressati. Con molti dei quali condivise parecchi ricordi e esperienze
di ristrettezze economiche, con quello spirito di reciprocità che al primo infarto,
privo com’era di un’assistenza mutualistica, gli valse un lungo ricovero presso
un ospedale di Mosca pagato interamente (sette milioni di lire, allora) da un
gruppo di artisti e scrittori russi. (3)
La parola
secondo Quasimodo: quale attualità?
“Un grande poeta, come un grande scrittore, si deve
interessare di tutta la società del proprio periodo: le sue opere devono essere
valutate per quello che dicono della società e alla società in cui vivono” (4),
affermò in diverse occasioni Salvatore Quasimodo, ribadendo l’indicazione d’una
funzione attiva e responsabile della parola. È, oggi, ancora valida quella
indicazione? Si può parlare di “attualità” in Quasimodo? La questione si pone
da sé se consideriamo per un attimo lo stato della poesia contemporanea, ridotta
spesso a gioco elitario, a puro artifizio fonico-verbale, per la quale non
pochi degli osservatori più attenti parlano ormai di “fine di un’epoca”. “Chi
può ancora meravigliarsi che la poesia non riesca ad interessare il grande
pubblico, se essa si ostina ad offrirgli il vuoto, anziché degnarsi di trattare
i veri, brucianti, paurosi problemi esistenziali dell’uomo d’oggi? Sembra anzi
che vi sia un tacito accordo fra i poeti per evitare accuratamente tutti i
problemi..” (5).
Come riecheggia, oggi, la provocazione di Quasimodo
quando dichiarava che piuttosto di usare certe frasi banali o retoriche “si
sarebbe fatto fucilare all’una di notte senza aspettare l’alba”! (6): una
tagliente polemica con i neoformalismi di allora e con quelli che (intuito di poeta?)
si sarebbero prevedibilmente affacciati nei decenni immediatamente successivi.
Marina
Palmieri
Riferimenti
bibliografici
(1) cfr. Giuliano Manacorda, “Storia della letteratura italiana contemporanea” (1940-1975), Ed. Riuniti, Roma 1977, p.169; L. Pignotti, “La situazione”, 1958, n.5; Barberi Squarotti, “Momenti”, 1958, n.6.
(2) Arnaldo Frateili, “Scritti sul teatro di Salvatore Quasimodo” su “Libri”, supplemento di lettere scienze e arti di Paese Sera, 9.9.1961.
(3) Aneddotiche in “L’avventura artistica di Albisola”, a cura di Luciano e Margherita Gallo Pecca, Editrice Liguria, Savona 1993.
(4) “Il parere di quattro scrittori”, su “Il contemporaneo”, 18.6.1955, p.4.
(5) Veniero Scarselli, “Perché non ri-definiamo la poesia”, Tribuna Letteraria n.38, 1995, p.6. Per una disamina dell’argomento vd. Pure Silvano Demarchi, “Sperimentazione e criptolinguaggio”, Tribuna Letteraria n.37, 1995, pp.9-10.
(6) Gilberto Finzi, “Ma Lei i libri li legge davvero, Professore?”, su “Millelibri”, aprile 1991, p.34.
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“l’informatorecultura” - Supplemento n°1 all’Informatore Vigevanese n°39 del 26 settembre 1996 / dispensa 7
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