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CHIRURGIA ROBOTICA IN UROLOGIA.

Minima invasività e massima precisione

con il “DA VINCI”.

 

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SALUTE / DIVULGAZIONE SCIENTIFICA

 

____DALL’ARCHIVIO DI COMUNICARECOME____

 

CHIRURGIA ROBOTICA IN UROLOGIA.

MINIMA INVASIVITÀ E MASSIMA PRECISIONE CON IL “DA VINCI”.

-         Intervista al professor Franco Gaboardi, di Marina Palmieri    -  Info Pubblicazioni, Chirurgia Robotica

 

Si chiama “Da Vinci” il robot impiegato con successo in un delicato intervento urologico eseguito in laparoscopia per l’asportazione radicale di un tumore alla prostata: l’intervento, eseguito con tecniche di microchirurgia di assoluta avanguardia e in visione di tridimensionalità, è stato eseguito dal professor Franco Gaboardi, Direttore dell’Unità Operativa di Urologia all’Ospedale Luigi Sacco di Milano.

Grande precisione e minima invasività, minor dolore e un recupero più rapido da parte del paziente sono solo alcuni dei risultati che la nuova tecnica con robot consente di ottenere, cui si aggiungerebbe la riduzione delle complicanze di incontinenza e di perdita della funzione erettile. Questi e molti altri i vantaggi della nuova tecnica d’intervento illustrati dal prof. Franco Gaboardi nell’intervista che segue, che è stata gentilmente rilasciata per i lettori di Bollettino Cardiologico e nella quale vengono indagati orizzonti operativi fino a ieri inediti e sempre più, oggigiorno, praticabili nella realtà.

- - -

Professor Gaboardi, in cosa consiste essenzialmente l’intervento di chirurgia con il robot “Da Vinci”, come quello da Lei praticato lo scorso marzo su un paziente affetto da tumore alla prostata? Quali vantaggi comporta la nuova tecnica rispetto alle tecniche più convenzionali?

La tecnica con il robot, che di recente abbiamo utilizzato in un intervento di prostatectomia radicale laparoscopica, non è altro, al momento attuale, che una forma più avanzata e più evoluta della laparoscopia. Come Unità Operativa di Urologia, qui all’Ospedale Sacco di Milano, siamo operativi già da anni con un nostro Centro di laparoscopia urologica. Quindi in questo Centro vengono eseguiti in laparoscopia tutti i più importanti interventi in ambito oncologico e ricostruttivo: mi riferisco per esempio a tumorectomie del rene con preservazione del rene stesso, all’asportazione del tumore della prostata, all’asportazione del carcinoma della vescica con relativa ricostruzione della vescica, e a molti altri  tipi di interventi ricostruttivo. Tutti questi tipi di intervento, che normalmente si eseguono a cielo aperto, noi li eseguiamo in laparoscopia.

Complessivamente, eseguiamo in media 200-250 interventi all’anno in laparoscopia; probabilmente quest’anno anche di più, perché man mano che si diffonde la ‘voce’ che eseguiamo questi interventi di laparoscopia con la tecnica robotica riceviamo richieste sempre più cospicue.

Normalmente quello laparoscopico è un intervento mininvasivo perché, anziché il taglio, vengono eseguite delle piccolissime incisioni (da 4 a 5 a seconda dell’intervento) che consentono l’accesso all’interno della cavità addominale. Attraverso l’incisione da un centimetro viene introdotta la telecamera che permette di vedere, mentre attraverso le altre incisioni o porte di accesso, che sono invece di circa mezzo centimetro, l’operatore e l’aiuto operano all’interno dell’addome del paziente.

Il vantaggio preminente della laparoscopia non è già di tipo estetico, anche se, talvolta, il vantaggio estetico di non ritrovarsi un taglio, ma, invece, solo delle piccolissime incisioni può essere proprio ciò che spinge il paziente ad effettuare questo tipo di scelta. Il vantaggio principale della laparoscopia risiede invece nel fatto che la mininvasività dell’intervento stesso (in particolare la non infrazione della parete addominale, ma anche la maggior precisione nell’esecuzione dell’intervento) determina un minor sanguinamento di quello che si otterrebbe effettuando la stessa operazione a cielo aperto. Tutto ciò, per il paziente, comporta una serie di importanti benefici: un minor dolore, una più rapida ripresa delle funzioni naturali, come soprattutto la mobilizzazione ed un più rapido recupero della motilità intestinale, e, proprio grazie al mancato taglio e pertanto al minor sanguinamento, un recupero più rapido nel post-operatorio.

 

 

A quale aspetto tecnico della laparoscopia, precisamente, è dovuta la maggiore precisione dell’intervento e, appunto, la conseguente riduzione di sanguinamento? E di quanto viene ridotto, in un intervento di laparoscopia, il sanguinamento del paziente rispetto a un intervento tradizionale a cielo aperto?

Il principale aspetto tecnico da sottolineare, per ciò che riguarda in generale la laparoscopia, è rappresentato dall’utilizzo della telecamera, che consente un ingrandimento significativo della zona da trattare e quindi una migliore visione della stessa. Tutto ciò consente all’operatore di eseguire l’intervento in modo molto preciso, per esempio consente di individuare vasi anche molto piccoli (che invece senza l’ingrandimento ottenuto con la telecamera non potrebbero essere visti) e di coagularli uno ad uno.

Ciò alla fine dell’intervento comporta un risparmio generale in termini di sanguinamento che può essere abbastanza consistente. Per fare un paragone: normalmente un intervento di prostectomia radicale a cielo aperto comporta un sanguinamento che può essere di 700-800 cc o anche fino a 1 litro di sangue; in laparoscopia, invece, normalmente l’intervento comporta un sanguinamento medio di 250-300 cc.

 

Considerati quelli che sono i vantaggi della laparoscopia, perché allora l’introduzione di un robot in sala operatoria per l’asportazione di un tumore alla prostata?

Ai vantaggi della laparoscopia che qui ho illustrato corrispondono, per ogni singolo intervento in ambito urologico, delle problematiche. Per esempio, nel caso del tumore della prostata abbiamo riscontrato che l’asportazione del tumore comporta, quale che sia la tecnica da adottare, due tipi di problemi, ovvero: un’incontinenza transitoria, che può variare da pochi giorni a qualche mese, e in secondo luogo problemi di erezione. Infatti anche qualora sia possibile salvare i nervi dell’erezione senza compromettere il risultato oncologico, la perdita della capacità di erezione in una grande percentuale dei pazienti è consistente.

Secondo le varie casistiche riferite alla chirurgia tradizionale, la perdita dell’erezione conseguente all’intervento di asportazione del tumore del prostata colpisce dal 30% al 70% dei pazienti trattati. In alcuni casi la perdita dell’erezione è dovuta al fatto che durante l’intervento di prostatectomia i nervi dell’erezione (nervi che corrono a fianco della prostata) vengono tagliati, in altri casi lo stesso effetto si verifica qualora la cicatrice coinvolge i nervi dell’erezione, ma, come già ricordato, la perdita della funzionalità erettile è sinora stata ampiamente riscontrata anche a seguito di interventi che salvaguardano i nervi dell’erezione.

Pertanto si è posta l’esigenza di sviluppare le varie tecniche di asportazione di tumore della prostata, proprio nell’ottica di migliorare la continenza (ovvero di far sì che si ottenga una continenza più precoce) e di preservare maggiormente l’erezione, soprattutto oggi che è possibile eseguire una diagnosi precoce  in pazienti giovani.

Ora, il motivo per cui abbiamo introdotto il robot e abbiamo cominciato ad impiegarlo nel nostro Centro di Urologia è che dai risultati rilevati in letteratura, soprattutto nordamericana (è infatti negli Stati Uniti che questa tecnica è maggiormente utilizzata, essendo già stata impiegata su circa 3.500 pazienti), emergerebbe un risultato superiore all’80% di salvaguardia della potenza sessuale, quindi un risultato che in questo momento si pone al vertice dei risultati della letteratura. La nostra speranza è che lo studio che a breve avvieremo (uno studio controllato, finanziato dalla Regione Lombardia) possa riuscire a confermare che l’impiego di questo robot ci consente di raggiungere risultati altrettanto importanti nella salvaguardia della potenza sessuale del paziente affetto da tumore della prostata e nel quale, se possibile, eseguire un intervento di tipo conservativo dell’erezione.

 

Può descriverci il caso del paziente che in marzo è stato operato da Lei impiegando la tecnica “Da Vinci”?

Il paziente sul quale, nello scorso marzo, abbiamo eseguito l’intervento chirurgico in laparoscopia robotica è un soggetto di 66 anni, che era affetto da un tumore della prostata abbastanza esteso. Nel corso dell’intervento è stata eseguita anche un’asportazione parziale dei linfonodi, che fortunatamente non erano però direttamente coinvolti dal tumore. L’intervento chirurgico è durato tre ore e un quarto, il sanguinamento è stato modesto, attorno ai 300 cc di sangue, e il paziente è stato degente per soli quattro giorni. I risultati dell’intervento, anche dal punto di vista della salvaguardia della potenza sessuale, potranno essere verificati da 6 mesi a un anno dall’intervento stesso. Possiamo tuttavia confermare che la ripresa è stata buona e che non si sono presentate complicazioni.

Comunque, il fatto che si sia eseguito quel tipo di intervento in laparoscopia robotica e che, con tale tecnica, si siano già ottenuti dei risultati positivi ci ha spinto a chiedere alla Regione Lombardia di potere avviare lo studio controllato di cui prima parlavo, uno studio nel quale poter valutare questa tecnica eseguita con il “da Vinci” versus le tecniche di laparoscopia tradizionale.

 

Cosa distingue sul piano della visione la laparoscopia tradizionale e la laparoscopia con il robot?

La laparoscopia tradizionale ci permette di lavorare in bidimensionalità, mentre con il robot si lavora in tridimensionalità, in quanto per l’appunto si utilizza la tecnica 3D. Gli autori americani spiegano i migliori risultati ottenuti mediante la tecnica robotica in 3D con il fatto che, grazie ad essa, si può raggiungere un ingrandimento fino a dieci volte maggiore rispetto alla laparoscopia tradizionale, una precisione ancora più elevata e l’annullamento del tremore fisiologico della mano del chirurgo.

Per “tremore fisiologico” si intende quel leggerissimo tremore che normalmente non si vede ad occhio nudo, ma che si potrebbe invece vedere lavorando con una tecnica che, proprio come la tecnica 3D del “Da Vinci”, preveda una sequenza crescente di ingrandimenti; in questo modo, per esempio, con 40 ingrandimenti si otterrebbe che il tremore fisiologico verrebbe accentuato 40 volte.

Comunque, proprio per ovviare a questo problema del tremore fisiologico, nella messa a punto del robot “Da Vinci” è stato studiato e applicato un sistema di trasmissione che riduce a un quinto il tremore fisiologico e che quindi, praticamente, lo annulla. Perciò, grazie a questo sistema, anche lavorando con un valore di ingrandimento elevatissimo non esiste più quel problema del tremore.

Verosimilmente, dal punto di vista pratico, non si lavora mai a 40 ingrandimenti perché altrimenti sarebbe talmente esasperato il particolare che si perderebbe la visione d’insieme. Però, anche sotto l’aspetto delle potenzialità tecniche di ingrandimento, quindi della profondità e dell’estensione del campo, possiamo dire che l’impiego del robot in laparoscopia permette di eseguire una microchirurgia in macrochirurgia.

E il vantaggio di tutto ciò è evidente, perché tanto più la tecnica sarà precisa e accurata e tanto più io, chirurgo, potrò essere preciso e accurato sia nel disseccare, sia nel tagliare, sia nel ricostruire; con l’occhio umano, evidentemente, non si può intervenire in maniera altrettanto meticolosa, e non certo per una questione di incapacità, ma semplicemente perché non è possibile vedere il particolare in modo così preciso.

 

Professor Gaboardi, il suo intervento di chirurgia con il robot “Da Vinci” è stato da più parti definito come una sorta di misterioso cammino o di misteriosa avventura nelle cavità del corpo umano. Anche tralasciando qualche forzatura lessicale, è vero che nell’eseguire un simile tipo di intervento si prova un po' la sensazione di viaggiare dentro al corpo del paziente che si sta operando? E in quale posizione lavora quando impiega il robot?

Sì, si prova davvero la sensazione di fare “un viaggio all’interno del corpo umano”, il che è anche comprensibile, dal momento che l’impiego del robot “Da Vinci” richiede, come già spiegato, l’utilizzo della tecnica 3D e quindi la visione in tridimensionalità.

Quanto alla posizione di lavoro, io nell’impiegare questa tecnica robotica lavoro come se stessi seduto a un tavolo, con una consolle che mi circonda e, avendo la modalità di visione a 3D (e non semplicemente la visione di un monitor, come si ha normalmente con la laparoscopia classica), è come se fossi con la testa dentro al corpo del paziente, con l’ingrandimento che stabilisco io. Inoltre, le mani sono collegate a degli anelli che trasmettono il mio movimento, mentre con i piedi muovo i vari pedali della telecamera, dell’ingrandimento, dello zoom. Perciò, sostanzialmente, è come se io mi muovessi con la mia testa all’interno del corpo del paziente, muovendo contemporaneamente le pinze: e questo è l’aspetto più innovativo del lavoro, al quale di sicuro bisogna abituarsi, ma che è affascinante dal punto di vista della visione.

L’altro aspetto che, potenzialmente, è affascinante è che dal punto di vista pratico io, chirurgo, mi vengo a trovare nella stessa sala a contatto con il malato, anche se invece posso non essere vicino malato. In altre parole, dal momento che sono collegato via cavo per trasmettere i miei movimenti, io (come chirurgo) potrei anche trovarmi a cento metri o, indifferentemente, a mille chilometri di distanza fisica dal paziente. L’importante, quindi, è che vi sia un cavo, un sistema di trasmissione, che faccia giungere il mio movimento al paziente: e oggi questo è reso possibile dalle varie tecnologie. Pertanto, se ci fosse un apposito collegamento transoceanico, potrei per esempio, qui dall’Italia, anche operare un paziente che si trovasse in America. L’unico motivo per cui questo tipo di collegamento non è ancora disponibile è che, tutt’oggi, c’è un gap, cioè uno scarto di tempo, nelle trasmissioni transoceaniche di circa 1 secondo tra quello che viene detto (a un polo della trasmissione) e quello che viene recepito (all’altro polo della trasmissione). E perciò, dal momento che come chirurgo ovviamente devo parlare con i miei collaboratori per impartire le mie istruzioni operative, istruzioni che sono in relazione anche ai miei stessi movimenti, quelle istruzioni verbali arriverebbero ai mie collaboratori 1 secondo dopo.. Quindi, al momento, lavorare in collegamento transoceanico non è possibile, ma non si tratta di un fattore propriamente limitativo quanto, invece, di un fattore puramente tecnico e che, in quanto tale, potrà essere risolto. Così come l’evoluzione delle conoscenze e delle applicazioni tecnologiche ha consentito lo sbarco sulla Luna (un evento che, solo pochissimi decenni fa, sembrava impossibile), alla stessa stregua il superamento di quel gap di 1 un secondo nelle trasmissioni via cavo da una sponda dell’Oceano all’altra rappresenta un fattore che sarà, prevedibilmente, superato quando l’industria tecnologica sarà decisa a risolverlo.

 

Qualche lettore, magari un po' profano in questo genere di tecnologie, potrebbe obiettare che resta pur sempre importante che il chirurgo si trovi vicino al paziente che sta operando...

Sì, ma l’utilità pratica di questo tipo di tecnica è enorme. Basti pensare che il relativo strumentario è stato prodotto dall’industria bellica americana: lo avevano studiato, pochi decenni fa, pensando di poter operare pazienti in campo bellico. L’idea di base era che il chirurgo, pur rimanendo in ospedale, avrebbe potuto accedere a distanza al corpo del paziente, cioè di chi, ferito e rimasto sul campo di battaglia, non avesse potuto essere spostato. Allo stesso modo, con questa tecnica, si pensava di poter predisporre, sempre a distanza, un’intera équipe di diversi specialisti, per esempio il cardiochirurgo, l’ortopedico, l’urologo, etc., i quali di volta in volta avrebbero potuto intervenire sul ferito, ciascuno per la propria sfera di competenza, o anche congiuntamente (come nel caso di lesioni multiple, riferite a diversi tipi di organi). Questa era l’idea originaria dei sistemi di trasmissione per la chirurgia a distanza.

Parallelamente, nel tempo, sistemi simili di trasmissioni via cavo per applicazioni in campo chirurgico sono stati al centro di un progetto, sempre americano, dedicato alle spedizioni spaziali. L’idea era in questo caso quella di mettere a disposizione della popolazione di astronauti, mandata nello spazio, un team di specialisti che, di volta in volta, a seconda del problema da trattare, fossero in grado di intervenire, appunto, a distanza. La validità di un simile progetto è quanto mai evidente, dal momento che è impossibile che di una spedizione nello spazio facciano parte tutti gli specialisti di tutte le discipline mediche. Dal punto di vista pratico questo progetto non è stato ancora realizzato, ma può essere futuribile, fattibile in un futuro neanche troppo remoto, in quanto con la tecnica e lo strumentario per la trasmissione a distanza si ha, come già spiegato, la possibilità di intervenire chirurgicamente sul paziente anche quando fisicamente molto lontani.

 

Tornando agli interventi con il robot “Da Vinci” che vengono eseguiti in ospedale, possiamo chiarire ulteriormente, anche per chi non conosca minimamente queste nuove tecnologie al confine tra la chirurgia e l’informatica applicata, quali siano le “interfacce” operative? Da una parte sta Lei, chirurgo a capo dell’équipe, che manovra lo strumentario robotico, dall’altra parte sta il paziente. È stato inoltre spiegato che sia il paziente sia i Suoi collaboratori dell’équipe possono, eventualmente, trovarsi anche molti distanti da Lei. Ebbene, una domanda che può sorgere spontanea é: chi è, “realmente” e non virtualmente, a contatto fisico col paziente? Per esempio: chi esegue le incisioni, ovvero le porte di accesso, sull’addome del paziente? E il robot: esegue i movimenti dopo averli registrati in un suo software (programma) in base alle istruzioni del chirurgo, oppure li esegue direttamente, ma sempre sotto lo stretto controllo del chirurgo?

Per rispondere alla prima parte della domanda, va detto innanzi tutto che le incisioni da praticare sull’addome del paziente sono standard. Si tratta di praticare un’incisione nell’ombelico e della lunghezza di circa un centimetro, che serve per inserire la cannula della telecamera; poi, a seconda dell’intervento, si eseguono altre due-tre piccole incisioni. Quindi, sì, vicino al paziente, e cioè dalla parte opposta al chirurgo che manovra lo strumentario robotico, occorre che ci sia qualcuno che esegue l’accesso, però l’accesso  può essere eseguito anche da un operatore di capacità media, seppure ovviamente specializzato.

Quanto al robot, e quindi al suo software, si tratta semplicemente di qualcosa che trasmette un movimento. È importante tenere presente che non è il robot che opera il paziente, ma che invece il robot permette solamente di trasmettere il movimento del chirurgo all’interno del paziente.

Quindi, riassumendo, il paziente deve essere preparato dal chirurgo che si trova al suo fianco (ovvero dall’operatore che si trova dalla parte opposta alla mia) e il software consente di trasmettere il movimento delle mie mani attraverso due piccole “manine” che lavorano all’interno del corpo del paziente. Perciò, l’intervento non viene né memorizzato dal robot, né eseguito dal robot: è solo il chirurgo che esegue l’intervento e che deve sapere esattamente come eseguirlo, mentre invece il robot si limita a trasmettere i movimenti eseguiti dal chirurgo.

 

Possono sorgere effetti collaterali eseguendo questo tipo di intervento?

No, nel senso che gli eventuali effetti collaterali sono riconducibili a quelli della laparoscopia classica e quindi dell’intervento generale.

Tutt’al più, per questo tipo di intervento può esservi un’eventuale controindicazione in caso di pazienti che abbiano problemi di tipo anestesiologico, in quanto l’intervento di laparoscopia richiede che il paziente debba stare, anziché in posizione orizzontale, in posizione a testa in giù (posizione di Trendelenburg) e ciò comporta che vi sia anche una compressione sul diaframma: pertanto questa posizione non può essere assunta da tutti i pazienti, specialmente dai pazienti cardiopatici gravi e dai pazienti con gravi problemi cardiorespiratori.

 

Una domanda sul progetto da Lei avviato in questo Centro di Urologia in collaborazione con la Regione Lombardia, progetto che, ricordiamo, prevede poi uno studio di fattibilità della nuova tecnica robotica a raggio più esteso. Qualora i risultati confermassero il successo della nuova tecnica anche sui medio-grandi numeri, cosa significherebbe tale successo per i tanti pazienti affetti da gravi disturbi e malattie di tipo urologico?

L’aspetto che a mio avviso può rivelarsi molto importante è rappresentato dalla possibilità che, oltre che nell’ambito di asportazione del tumore, l’impiego del robot sia di grande vantaggio anche nella chirurgia laparoscopica ricostruttiva: la ricostruzione (della vescica, e l’anastomosi con la uretra) costituisce la parte più difficile della laparoscopia e comunque è una fase dell’intervento altrettanto difficile dell’asportazione del tumore. Inoltre, i tempi della ricostruzione in laparoscopia sono tempi lunghi, oppure sono spesso tempi operatore-dipendenti, nel senso che dipendono molto dalla pratica acquisita in laparoscopia. L’impiego del robot, dal momento che il robot stesso trasmette il movimento come se fosse dotato di due mani esperte che lavorano all’interno del corpo del paziente, potrebbe rendere molto più facili questi tipi di intervento e quindi renderli accessibili a un maggior numero di operatori fra tutti quelli che utilizzano la nuova tecnica.

Lo scopo dello studio che, qui all’Ospedale Sacco di Milano e come Centro di Urologia, abbiamo avviato in collaborazione con la Regione Lombardia è appunto anche quello di verificare, oltre alla fattibilità, i tempi di questa tecnica eseguita con il robot: se i risultati si confermeranno positivi, sarà possibile rendere molto più diffuso questo tipo di tecnica, che oggi invece è ancora appannaggio di pochi Centri che praticano molta laparoscopia.

I risultati del nostro studio dovrebbero, in particolare, poter confermare che la riduzione dei tempi dell’intervento è consistente e che il costo dello strumento, ora notevole, può venir ammortizzato dal fatto che questa chirurgia (che è una chirurgia pesante) comporta vantaggi di miglior recupero per il paziente, vantaggi di maggior precisione e anche di tempi di degenza più brevi. Questo studio riguarderà cinquanta pazienti nell’arco di un anno. Con la nuova tecnica “Da Vinci” opereremo circa un paziente alla settimana.

 

Professor Gaboardi, un’ultima domanda proprio sull’aspetto delle risorse che richiede questa tecnica “Da Vinci”: quanto costa il robot? E la formazione? Che tipo di impegno esige e qual è stata, in particolare, la Sua esperienza di training che l’ha portata a diventare un chirurgo tanto esperto nell’applicazione di questo tipo di tecnica? 

Il robot in sé costa un milione e duecentomila euro, come acquisizione. Poi ha un costo che riguarda tutta una sua attrezzatura specifica, che viene utilizzata di volta in volta per l’intervento. Complessivamente, ogni intervento eseguito con la tecnica “Da Vinci” ha un costo che può essere quantificato in circa 3.000 euro aggiuntivi, rispetto a un intervento tradizionale. Quanto alla formazione, io e i miei colleghi dell’Unità Operativa di Urologia dell’Ospedale Sacco di Milano pratichiamo intensivamente, da oltre quattro anno, tutti gli interventi di chirurgia laparoscopica. Prima di iniziare l’intervento con il “Da Vinci”, abbiamo avuto per un periodo il robot a disposizione, con il quale abbiamo acquisito in fase di training delle buone capacità di manualità e di vision, poi per un altro periodo siamo andati in un Centro svizzero dove abbiamo assistito agli interventi di un urologo che all’attivo aveva già varie esperienze di chirurgia robotizzata e così, con lui, abbiamo osservato e studiato alcune fasi dell’intervento particolarmente complesse. Successivamente, qui al Sacco di Milano,  abbiamo quindi eseguito il primo intervento di chirurgia robotica con il “Da Vinci” (asportazione laparoscopica di tumore alla prostrata) e non abbiamo riscontrato problemi particolari, anche perché, come già accennato, non differiva in modo significativo da quello che già era il nostro lavoro quotidiano in questo Centro. Sostanzialmente, l’esecuzione di questa nuova tecnica non presenta problemi particolari se non quello di dover usare il robot. Acquisire la necessaria confidenza con l’apparecchiatura è tuttavia un risultato che si può ottenere in termini estremamente rapidi se, nella pratica chirurgica di ogni giorno, si eseguono già interventi di laparoscopia.

 

 

Marina Palmieri

 

 

 

 

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Info Pubblicazioni:

- Bollettino Cardiologico N. 125, Luglio-Agosto 2004

 

 

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