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All’Ospedale Niguarda di
Milano, doppio trapianto di fegato e
pancreas.
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SALUTE / DIVULGAZIONE SCIENTIFICA
____DALL’ARCHIVIO DI COMUNICARECOME____
All’Ospedale
Niguarda di Milano,
doppio trapianto di fegato e pancreas.
Cirrosi epatica e diabete mellito insulinodipendente: due
malattie in costante aumento, spesso coincidenti nello stesso paziente.
Vantaggi e prospettive del trapianto combinato. E ancora: la situazione delle
donazioni d’organo. |
Intervista di Marina Palmieri,
con il
dott. Luciano De Carlis e il dott. Cosimo Vincenzo Sansalone
Un doppio
trapianto di fegato e pancreas: è questo il nuovo intervento di trapianto
combinato che, nello scorso mese di Luglio 2005, è stato eseguito all’Ospedale
Niguarda di Milano su un uomo di 44 anni che era affetto da cirrosi epatica e
da diabete mellito insulinodipendente. Questo intervento, in realtà, si
inserisce in una intensa attività di doppio trapianto che, sempre all’Ospedale
Niguarda, viene praticata ormai da tempo. La “novità” del trapianto combinato
di fegato e pancreas è dunque tale ove si consideri che prima di allora, almeno
in Italia, mai questi due organi erano stati trapiantati assieme. A
riequilibrare l’impatto della notizia che, all’indomani del doppio trapianto
fegato-pancreas, tanta curiosità ha suscitato nei media è il tenore delle
stesse considerazioni che abbiamo raccolto dai due chirurghi che hanno eseguito
tale intervento: il dottor Luciano De Carlis, responsabile dell’Unità Operativa
di trapianti del fegato dell’Ospedale Niguarda di Milano, e il dottor Cosimo
Vincenzo Sansalone, responsabile dell’Unità Operativa di trapianti di rene e
pancreas dello stesso Ospedale Niguarda di Milano.
Accogliendo
le loro considerazioni, e cercando di trattare l’argomento con la cautela che
richiede la notizia di questo specifico doppio trapianto (anche in attesa che
esso possa essere praticato su un vasto numero di pazienti), siamo tuttavia
certi che l’illustrazione delle due fasi dell’intervento, delle misure e delle
particolari accortezze chirurgiche messe in atto in tale occasione, siano
oggetto di sicuro interesse per i nostri lettori. Questo ed altro
nell’intervista che segue, che contiene anche indicazioni preziose sullo stato
delle donazioni d’organo in Italia, sull’impegno che pure in termini
organizzativi richiede l’esecuzione di un trapianto e, non per ultimo, sulle
nuove prospettive scientifiche connesse anche ad alcune dinamiche immunologiche
del doppio trapianto.
Il caso clinico del paziente: diabetico sin dall’infanzia e affetto da cirrosi epatica,
restituito a una vita normale dal doppio trapianto fegato-pancreas.
Soddisfazione sul risultato, ma anche cautela sulle prospettive.
44 anni,
diabetico insulinodipendente sin dall’infanzia e poi affetto da cirrosi epatica
contratta da virus di epatite C, il paziente sottoposto nel Luglio 2005 al
doppio trapianto fegato-pancreas è stato al centro dei “riflettori” della
cronaca all’indomani di questo inedito intervento. Un intervento che lo ha
restituito a una vita normale, grazie all’innesto di un nuovo fegato (trapianto
eseguito dal dottor Luciano De Carlis) e del blocco pancreatico (trapianto
eseguito dal dottor Cosimo Vincenzo Sansalone). Un intervento alquanto
particolare, non soltanto perché – come abbiamo appreso - non sono molti i
pazienti che presentano una combinazione di una patologia epatica e di un
diabete mellito insulinodipendente di tale gravità da dover ricorrere a un
trapianto simultaneo, ma anche perché i trattamenti combinati fino a ieri
eseguiti proprio su pazienti affetti da entrambe tali patologie comprendevano
trapianto di fegato e trapianto di insule pancreatiche. Non, dunque, trapianto
di fegato e trapianto dell’intero organo pancreatico, come invece nel caso
presentato in questo servizio.
Perché,
dunque, si è deciso di trapiantare l’intero blocco pancreatico, anziché le
singole insule pancreatiche? Il motivo, come ci è stato spiegato dai chirurghi
che hanno eseguito l’intervento, sta nel fatto che il trapianto delle sole
insule pancreatiche non si è finora dimostrato un trattamento di lunga durata,
in quanto le insule pancreatiche si esauriscono per fenomeni di tipo
rigettuale. L’organismo, cioè, reagisce considerando queste insule come
estranee, con la conseguenza che la funzionalità delle insule pancreatiche si
dimostra piuttosto ridotta nel tempo. Proprio per ovviare al fatto che le
insule pancreatiche non sono in grado di resistere a lungo, è stato dunque
deciso di eseguire un trapianto combinato del fegato e del pancreas intero, in
modo tale da garantire al paziente una maggior vita possibile sia del fegato,
sia dell’organo pancreatico.
Fatta questa
premessa entriamo nel vivo dell’intervista, con una prima parte dedicata al
decisivo cambiamento di condizioni cliniche e di “qualità di vita” consentito
dal doppio trapianto fegato-pancreas.
Dottor De Carlis, qual era il quadro clinico del paziente, prima che venisse sottoposto al doppio trapianto di fegato-pancreas? E attualmente, come si presentano le condizioni del paziente?
■ Dottor Luciano De Carlis, Responsabile
dell’Unità Operativa di Trapianti del fegato, Ospedale Niguarda di Milano:
Le
condizioni del paziente sono stabilizzate; ha una funzionalità epatica normale
e una glicemia perfettamente controllata, senza infusione di insulina e senza
assunzione di farmaci antidiabetici orali. Il paziente ormai conduce una vita
normale e si sente anche pronto a riprendere quanto prima la sua attività
lavorativa. Quanto al quadro clinico di partenza, va ricordato che il paziente
presentava condizioni epatiche molto gravi, che lo costringevano a
un’ospedalizzazione frequentissima: era infatti soggetto a frequenti episodi di
scompenso epatico importanti, inclusi episodi di coma epatico e di ascite
ricorrente. Ad aggravare ulteriormente questo quadro clinico è poi intervenuto
il peggioramento delle condizioni del diabete (sia per insufficienza epatica
ingravescente, sia per il decorso evolutivo naturale della malattia stessa) che
comportava al paziente dei disagi molto seri: il paziente cominciava ad essere
affetto da una neuropatia periferica importante, aveva un'iniziale retinopatia,
un'iniziale nefropatia, e soprattutto andava incontro a frequenti episodi di
iperglicemia alternati a episodi di ipoglicemia, con conseguenti episodi di coma
diabetico. Un quadro clinico, dunque, che si presentava molto critico. Stante
la delicatezza dell’intervento eseguito, abbiamo ovviamente preferito essere
estremamente cauti nella dimissione. Però l’intervento del doppio trapianto
fegato-pancreas non ha comportato episodi di rigetto, né complicanze
particolari, se non una cistite (peraltro abbastanza frequente nel paziente
immunodepresso) che è stata trattata con specifica terapia antibiotica.
Interessante, nel merito della fase post-operatoria del caso qui presentato, anche una breve annotazione “di cronaca” raccolta dalle parole del dottor Sansalone: che ha il merito di spiegarci, con vividezza, fino a che punto, oggigiorno, il mondo dell’informazione (o meglio, di certa parte dell’informazione) possa arrivare a interagire col mondo della sanità, e in che modo quest’ultimo possa trovarsi al centro dei “riflettori della cronaca” anche suo malgrado, anche nonostante il riserbo professionale del personale medico. Ma anche un’annotazione che si presta a considerazioni importanti sulla necessità di cautela, di prudenza,che secondo gli specialisti del trapianto d’organo deve accompagnare ogni prospettiva terapeutica sul lungo periodo.
Dottor Sansalone, può fornirci qualche informazione sul decorso post-operatorio del paziente sottoposto al doppio trapianto fegato-pancreas?
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone,
Responsabile dell’Unità Operativa di Trapianti di rene e pancreas, Ospedale
Niguarda di Milano:
Il decorso
post-operatorio non ha presentato problemi particolari e non è stato
significativamente diverso da quello di tutti gli altri pazienti trapiantati.
Il paziente è dapprima stato sottoposto a circa quattro giorni di terapia
intensiva, quindi è stato trasferito al reparto di terapia subintensiva: un
ambiente, questo, che ovviamente presenta maggiori garanzie di sterilità
rispetto a un reparto di chirurgia normale, ma nel quale il paziente, non più
intubato, viene restituito a condizioni assolutamente normali. Il nostro
paziente, quindi, già durante la fase di terapia subintensiva ha subito ripreso
a mangiare, a parlare, a muoversi, e così via. Il decorso post-operatorio, di
per sé, è durato circa un mese. Poi, in realtà, il paziente è rimasto da noi
più di un mese e mezzo, sia soprattutto per i vari controlli medici ai quali ha
dovuto sottoporsi, sia perché, essendo nel frattempo stata diffusa questa
notizia del doppio trapianto - che secondo me ha avuto un impatto eccessivo sui
mass-media, tanto che in brevissimo tempo sono arrivati qui in ospedale
moltissimi giornalisti e fotografi - si è trovato a rilasciare varie interviste..
Perché ritiene eccessivo l’impatto che per certi versi ha avuto la notizia di questo doppio trapianto? E in particolare: quali sono, sempre a tale riguardo, le Sue considerazioni di chirurgo che da tanti anni esegue trapianti d’organo?
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone, (U.O.
Trapianti di rene e pancreas):
A mio
parere, la notizia di un doppio trapianto fegato-pancreas va presentata con una
certa sobrietà, perché naturalmente noi non sappiamo con esattezza quale sia la
popolazione che può avvantaggiarsi del doppio trapianto. Sappiamo, sì, che la
cirrosi epatica è una malattia estremamente comune in Italia e che estremamente
comune è purtroppo anche il diabete; sappiamo che entrambe le malattie sono in
aumento; ma non sappiamo in quanti casi la cirrosi e il diabete arrivino a
coincidere in uno stesso malato. Si tratta di due malattie a sé stanti, che
presentano caratteristiche eziologiche assolutamente indipendenti. Il caso del
paziente qui sottoposto al doppio trapianto (trapianto fegato-pancreas) ha però
dimostrato che può capitare il paziente che, essendo diabetico sin dalla prima
infanzia ed avendo contratto da anni il virus da epatite C, vada incontro a
un’epatite molto aggressiva poi con cirrosi e quindi con sviluppo di una grave
forma di insufficienza epatica: un tipo di paziente, dunque, che (proprio per
la compresenza di queste malattie) ha bisogno sia del trapianto di fegato, sia
del trapianto di pancreas. E allora, anche per poter fornire qualche
indicazione in più sulle donazioni d’organo occorrenti per un simile intervento
di doppio trapianto, abbiamo bisogno di sapere quanti siano effettivamente i
malati che sono affetti da entrambe queste malattie e che potrebbero essere
utilmente considerati proprio per il doppio trapianto fegato-pancreas.
Tecniche standardizzate. Il “passaggio” dal primo al secondo trapianto.
L’intervento di doppio trapianto fegato-pancreas eseguito lo scorso Luglio all’Ospedale Niguarda è durato complessivamente circa 12 ore, inclusi i tempi occorsi per l’induzione dell’anestesia e i tempi di risveglio del paziente. L’intervento chirurgico, di per sé, è durato circa 9 ore: circa 4 ore e mezzo per il trapianto di fegato (prima fase dell’intervento) e altrettanto per il trapianto del blocco duodeno pancreatico (seconda fase dell’intervento). Come viene preparato un paziente che debba ricevere, dunque, il doppio trapianto fegato-pancreas, e quali cautele chirurgiche occorre seguire affinché il “passaggio” dal primo al secondo trapianto sia il più possibile esente da rischi? È questa l’altra domanda che abbiamo rivolto ai chirurghi che hanno eseguito il trapianto combinato e simultaneo di fegato-pancreas, i quali ci hanno fornito interessanti indicazioni sia sull’alto livello di standardizzazione ed evoluzione delle tecniche oggi impiegate per questo tipo di intervento, sia su alcuni accorgimenti specifici che rendono possibile limitare al massimo i problemi insiti nel doppio trapianto.
■ Dottor Luciano De Carlis (U.O. Trapianti
del fegato):
Dopo aver
praticato un’incisione addominale, incisione che rimane unica per la prima e
per la seconda fase dell’intervento, si procede prima all’intervento di
epatectomia ossia di asportazione del fegato malato, quindi si procede
all’impianto del fegato da donatore cadavere. Il fegato (quello “nuovo” –
n.d.a.) viene allocato nello stesso sito del fegato asportato: si tratta
pertanto di un trapianto ortotopico, oggigiorno eseguito con tecniche altamente
standardizzate e che in genere non prevedono quasi mai il bypass endovenoso. Una
volta finito l’impianto del nuovo fegato, si allarga lievemente l’incisione
addominale e si incomincia il trapianto del pancreas, che è invece un trapianto
eterotopico: questo significa che il pancreas nativo non viene asportato e che
il nuovo pancreas viene messo in una porzione di duodeno nel fianco fossa
iliaca di destra, cioè in una posizione che non è quella normale: si procede
quindi come nel caso di un trapianto di rene, perché anche in quel caso il rene
malato nativo non viene generalmente asportato, mentre il rene “nuovo” viene
aggiunto in fossa iliaca in una posizione diversa da quella è la posizione
naturale.
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone, (U.O.
Trapianti di rene e pancreas):
Nello
specifico della tecnica, il trapianto del pancreas che abbiamo eseguito lo
scorso Luglio non si è differenziato in alcun modo dai trapianti che vengono
eseguiti nei pazienti che ricevono il solo trapianto del pancreas. La
particolarità dell’intervento, però, è stata costituita dal fatto che sul
paziente era stato eseguito un trapianto di fegato immediatamente prima, e che
i problemi della coagulazione erano ancora in essere nel momento in cui noi
abbiamo proceduto al trapianto del pancreas. Un fegato appena impiantato ha dei
valori di coagulazione che sono un po’ più bassi che nella norma, anche se le
capacità di sintesi sono quasi immediate. Affinché i test di coagulazione
tornino nella norma, occorre in genere che trascorrano 12-13 ore, un termine
che ovviamente noi non possiamo far attendere, e perciò dobbiamo accettare un
quota di rischio aggiuntivo nel trapianto del pancreas, sapendo che c’è un
sanguinamento possibile. È questa la vera difficoltà tecnica del doppio
trapianto. Pertanto, se in una fase di facile sanguinamento si deve eseguire
una seconda procedura chirurgica di trapianto, questa richiederà naturalmente
più attenzione e anche tempi più lunghi. Infatti, in questo caso, il trapianto
di pancreas è durato circa un’ora in più rispetto al trapianto di pancreas che
noi eseguiamo nei pazienti che ricevono solo pancreas. In totale, è durato
circa 4 ore e mezza. Va poi tenuto presente che il paziente che arriva al
trapianto di fegato perché affetto da cirrosi, proprio come il giovane che mesi
fa abbiamo operato (paziente affetto da cirrosi e anche da diabete), ha già un
fegato che tende a non coagulare e che perciò sanguina facilmente: un problema,
questo, che rende difficile già tutta la procedura di terapia del “vecchio”
fegato e quella d’impianto del “nuovo” fegato.
Trapianto di blocco pancreatico, lasciando in sede il pancreas
nativo.
Dottor Sansalone, il pancreas nativo del paziente non è stato toccato e si è proceduto con l’innesto del blocco pancreatico. Può spiegarci quale complessità e quali eventuali inconvenienti presenta questa procedura di trapianto? E quali i benefici più rilevanti per il paziente?
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone (U.O.
Trapianti di rene e pancreas):
Il
trapianto del pancreas è una procedura certamente delicata (che richiede
esperienza, pazienza e anche una conoscenza abbastanza specifica del singolo
ammalato), ma dal punto di vista tecnico non presenta molti inconvenienti. Può
comportare però alcuni rischi, il più importante dei quale è connesso
all’asportazione della milza. La milza dev’essere tolta dal blocco pancreatico
da trapiantare, perché è un potente immunostimolatore. È stato infatti
dimostrato che se, diversamente, la milza viene lasciata in sede, il rigetto
dell’organo trapiantato è un effetto molto più frequente. Perciò noi dobbiamo
obbligatoriamente toglierla, proprio perché togliendo la milza togliamo il
principale fattore che consente al sangue che arriva al pancreas dall’arteria
splenica di uscire altrettanto velocemente. Però il togliere la milza comporta
ovviamente che l’arteria non ha più il letto splenico a valle, e quindi il
circolo sia arterioso sia venoso è rallentato. Questo comporta purtroppo una
certa incidenza di trombosi venose precoci, che in tutte le casistiche si
aggira attorno al 5-8% secondo i vari Centri di trapianto, e a volte supera il
10%. Naturalmente oggigiorno abbiamo messo a punto delle procedure che
consentono di limitare questa complicanza, però si tratta pur sempre di una
complicanza temibile, perché se si trombizza la vena bisogna togliere l’organo
trapiantato. L’incidenza attuale di mortalità per questo tipo di complicanza è
del 5% circa, e nessun chirurgo che esegua trapianti di pancreas (nei nostri
Centri di trapianto italiani così come in tutti gli altri Centri del mondo) è
esente da questa complicanza terribile. Uno dei rischi maggiori cui l’organo
del pancreas va incontro è rappresentato proprio dai problemi chirurgici
post-operatori creati dalla trombosi, perché a causa di questa complicanza
perdiamo circa il 5-7% dei pancreas trapiantati.
Per
contro, i vantaggi del trapianto di pancreas sono straordinari, perché il
paziente che ha un diabete mellito insulinodipendente che duri, poniamo, da
15-20 anni, oppure (come molto spesso accade) insorto durante l’infanzia o
addirittura durante la prima infanzia (così come lo era il diabete di cui era
affetto il paziente che abbiamo trattato con il doppio trapianto
fegato-pancreas), ebbene, questo tipo di paziente diabetico purtroppo non
sempre ha un beneficio completo dall’uso della terapia insulinica. Vi è cioè
una certa quota di diabetici che non riesce a controllare bene il metabolismo
glucidico. Si tratta di pazienti che nell’arco della giornata vanno incontro a
numerosi episodi di iperglicemia e di ipoglicemia, episodi questi che, oltre
che essere ovviamente dannosi già nell’immediato, nel lungo periodo provocano
danni gravissimi. L’ipoglicemia, in particolare, tende a far svenire
l’ammalato, e sul lungo periodo può comportare dei danni metabolici cerebrali,
mentre invece l’iperglicemia provoca a lungo andare dei danni irreversibili alla
retina, ai nervi periferici, ai nervi del sistema vegetativo al di sopra
dell’intestino, e ovviamente al sistema cardiovascolare. Quindi il diabete
produce di sicuro degli effetti negativi sul lungo periodo, che sono stati
dimostrati in moltissimi malati: colpisce il rene e provoca dell’insufficienza
renale; colpisce la retina e può comportare una retinopatia grave fino alla
cecità; può dar luogo, ancora, a problemi di neuropatia periferica tali che
fanno sì che i malati, per esempio nell’atto del camminare, non sempre riescano
a percepire perfettamente la sensibilità, a causa proprio di quelle “ulcere da
trauma” che in realtà sono dovute al fatto che il paziente non percepisce
dolore e quindi non si ferma un attimo prima che il danno sulla cute, ovvero il
trauma, venga fatto. Inoltre c’è il problema delle cardiopatie su base
diabetica, che com’è noto comportano una maggiore incidenza di mortalità
cardiaca (in media i diabetici muoiono circa vent’anni prima rispetto alla
popolazione generale).
Tempi di sicurezza e modalità di conservazione degli organi.
Quali accorgimenti richiede la conservazione di un organo espiantato - nello specifico quello del fegato e quello del pancreas - in modo che in vista del successivo trapianto siano ridotti al massimo gli eventuali problemi di deterioramento?
■ Dottor Luciano De Carlis (U.O. Trapianti
del fegato):
Il fegato
viene asportato dal donatore, che generalmente è un donatore cadavere, e
ovviamente deve essere esanguinato; il sangue viene sostituito da un liquido di
perfusione, ricco di potassio, che consente la conservazione dell’organo per
diverse ore. Il fegato, il pancreas, i reni vengono immessi in questa soluzione
e vengono mantenuti così a 4 gradi centigradi; tolti poi dal loro contenitore
termico, vengono immessi nel nuovo organismo proprio immediatamente prima che
si formi l’anastomosi vascolare; dopodiché, non appena completata l’anastomosi
vascolare viene riaperto il flusso ematico arterioso, venoso, portale etc. e si
ottiene una riperfusione dell’organo. Per quanto riguarda, in particolare, il
fegato, si tratta di un organo che sopporta circa 12-14 ore di tempo di
ischemia, cioè di tempo che intercorre dal momento in cui l’organo viene
asportato dal donatore cadavere al momento in cui vengono riaperti i flussi
ematici. In casi eccezionali abbiamo avuto organi che hanno aspettato anche
16-18 ore (prima di essere innestati nell’organismo ospite) e che tuttavia
hanno poi dimostrato una buona ripresa funzionale, ma in genere si cerca di non
superare le 12 ore. Il termine di 12 ore, va ricordato, è il tempo massimo
entro il quale l’organo del fegato (come pure quello del pancreas) mantiene la
capacità di essere conservato al freddo in soluzioni particolari: si tratta di
soluzioni che consentono di azzerare il metabolismo e di mantenere uno scambio
ionico fra la cellula e il liquido extracellulare che sia ottimale, come è per
le nuove perfusioni che in questo Centro dell’Ospedale Niguarda utilizziamo già
da una decina d’anni.
■ Dottor
Cosimo Vincenzo Sansalone (U.O. Trapianti di rene e pancreas):
Noi
abbiamo oggi delle soluzioni di straordinaria efficacia, che consentono di
perfondere gli organi - reni, fegato, pancreas - direttamente sul cadavere. Per
di più con la stessa soluzione, ossia con un’unica soluzione, possono essere
perfusi tutti e tre gli organi. Si tratte di ottime soluzioni di perfusione e,
nel contempo, di ottime soluzioni di conservazione dell’organo. In quello
stesso liquido, perciò, l’organo viene lavato, perfuso e conservato a 4 gradi
centigradi: è così per il pancreas, che dunque non riceve che un danno davvero
minimo, ma è così ovviamente anche per reni e fegato. C’è un termine, poi,
oltre il quale i danni cominciano a diventare importanti: per il pancreas, in
generale, è meglio stare sotto le 14 ore (un tempo massimo di ischemia
complessiva che è considerato un “tempo di sicurezza”, entro il quale non si
presentano problemi particolari); per il rene è raccomandabile non superare le
22-23 ore. Riuscire ad eseguire il trapianto prima possibile è una regola
aurea, regola che tuttavia non sempre è possibile rispettare perché a volte
subentrano alcuni fattori, come soprattutto quelli dovuti all’organizzazione e
alla distanza del donatore, che non lo consentono; tuttavia, anche in questi
casi e sempreché ovviamente siano rispettati i tempi massimi di sicurezza,
risultano molto efficaci le nuove soluzioni per la perfusione e per la
conservazione che, torno a sottolinearlo, sono di ottima qualità.
Domanda e Offerta di donazioni d’organo.
Dottor De Carlis, qual è la stima più attendibile di fabbisogno di trapianti di fegato, in Italia? E, ancora, è una stima ragionevolmente “coperta” dalla donazione di organi, oppure no?
■ Dottor
Luciano De Carlis (U.O. Trapianti del fegato):
Attualmente in Italia ci sono 19 Centri di Trapianto
autorizzati al trapianto di fegato, e attualmente ogni anno si eseguono circa
mille trapianti di fegato. Però abbiamo una lista d’attesa che è almeno del
doppio. Si stima che, sul totale dei pazienti in lista d’attesa per il
trapianto, la percentuale dei pazienti che muoiono in attesa del trapianto
stesso sia del 5-10%, a seconda dei Centri. Noi medici cerchiamo sempre di
eseguire i trapianti nei pazienti più gravi, e perciò di ridurre la mortalità
dei pazienti in lista, però è logico che, nell’attesa del trapianto, anche gli
altri pazienti finiscono via via col diventare gravi: un enorme problema,
questo, che qui colgo l’occasione di sottolineare. Complessivamente e sempre
per ciò che riguarda il settore dei trapianti di fegato, pur avendo in Italia
una donazione d’organo abbastanza soddisfacente (attualmente, l’Italia è al
secondo posto in Europa per donazioni), dobbiamo rilevare che in alcune regioni
italiane l’offerta di donazioni è molto ridotta. In questi ultimi mesi, un calo
importante nelle donazioni d’organo si registra in Lombardia, che in questo
senso sta attraversando un periodo di crisi: una crisi che occorrerà valutare
meglio, cercando di identificare le cause dalle quali essa dipende: cause che,
va aggiunto, non sono affatto rappresentate dalla volontà dei parenti (parenti
dei deceduti – n.d.a.), che in genere è sempre abbastanza alta.
Per ovviare in parte a questa discrepanza tra domanda
e offerta, ossia tra domanda di trapianto e possibilità di ottenere donazioni
d’organo, abbiamo ampliato un po’ l’orizzonte dei donatori disponibili - sempre
ovviamente con criteri di grande sicurezza e a condizione che si tratti
effettivamente di donatori idonei - utilizzando anche categorie di donatori che
un tempo venivano invece considerati poco idonei. Per i trapianti di fegato
possiamo per esempio utilizzare anche donatori anziani, persino di 80-85 anni,
senza che ciò costituisca alcun rischio per il paziente che riceve l’organo. Il
fegato infatti è un organo con una capacità di risintesi, di rigenerazione,
molto importante; quindi anche un organo di una certa età (cioè di un donatore
anziano) quando viene immesso in una persona giovane può poi rigenerarsi in
maniera tale da garantire un'ottima funzionalità. Inoltre, sempre per cercare
di soddisfare di più la lista d’attesa, dal 2001 abbiamo avviato qui
all’Ospedale Niguarda alcuni nuovi programmi per i trapianti di rene e di
fegato da vivente: trapianti che ci stanno procurando molte soddisfazioni dal
punto di vista del risultato e che, tuttavia, rappresentano trapianti
difficili, trapianti con un’applicabilità limitata. Ma questi, ripeto, sono
solo alcuni dei nuovi programmi con i quali cerchiamo di colmare, almeno in
parte, la discrepanza tra domanda e offerta d’organi per il trapianto. Per
soddisfare la lista d’attesa dei tanti pazienti che necessitano di trapianto
avremmo bisogno di risorse più importanti.
Proprio in questo quadro di difficoltà a sopperire a tutte le richieste di trapianto d’organo, come s’inserisce, dottor De Carlis, il problema dell’aumento dei casi di cirrosi epatica?
■ Dottor
Luciano De Carlis (U.O. Trapianti del fegato):
In Italia, similmente a molti altri Paesi del
mediterraneo (soprattutto Grecia e Spagna), c’è un altissima incidenza di
cirrosi, soprattutto da epatite virale B e C. Con l’epatite B in genere otteniamo
un ottimo risultato nel post-trapianto perché abbiamo a disposizione dei sieri
che bloccano la replicazione virale. Per l’epatite C il risultato non è
altrettanto soddisfacente, anche se ci sono alcuni schemi terapeutici che ci
aiutano a ridurre la replicazione virale, a limitare la recidiva dell’epatite.
C'è ancora una quota consistente di pazienti trapiantati in cui si sviluppa
un'epatite del post-trapianto, e a volte dobbiamo ritrapiantare a distanza di
anni a causa dello sviluppo di una cirrosi o di una neoplasia sul fegato. Anche
questa situazione rende necessario l’aumento del numero delle donazioni, e io
credo che nelle Regioni (quelle in particolare nelle quali l’offerta di
donazioni è più carente) si dovrebbe investire di più, implementando soprattutto
il sistema organizzativo che “sta dietro” al trapianto e alla cultura della
donazione. La discrepanza tra domanda e offerta di donazioni di cui prima
dicevo riguarda molto da vicino la situazione degli ospedali italiani: in
alcuni di questi la percentuale di donazioni è altissima, ma è molto bassa in
molti altri ospedali, specie di grandi dimensioni, con vasti bacini d’utenza.
Vi sono dunque grossi ospedali che non hanno donazioni. È in questa direzione
che la discrepanza andrebbe un po' colmata, implementando appunto tutta la
parte organizzativa del trapianto - in particolare l’organizzazione degli staff
medico-infermieristici e dei reparti di rianimazione - in modo da poter
sostenere uno sforzo importante, sempre molto alto, molto impegnativo, quale è
quello della donazione.
Sotto quali aspetti, in particolare, quello della donazione è uno sforzo molto alto?
■ Dottor Luciano De Carlis (U.O. Trapianti
del fegato):
Lo è in
termini di energie, di mezzi, di costi, di personale sanitario. È uno sforzo
molto alto perché si tratta di mantenere le funzioni vitali presenti in un
cadavere (il donatore), e ciò non è affatto facile. Più precisamente: nel
momento in cui un individuo viene considerato donatore, significa che
quell’individuo è già deceduto; ebbene, non è facile tenere attive le funzioni
vitali in un deceduto, in un morto: bisogna tenerle attive per almeno 6-12 ore,
ovvero per il tempo che è necessario per poter arrivare a eseguire il prelievo
dell’organo. Questo, per l’appunto, è uno sforzo non indifferente. Uno sforzo
che, per essere meglio sostenuto, richiederebbe un’ulteriore implementazione
sul piano organizzativo.
Diversa, in quanto a rapporto tra domanda e offerta d’organi per il trapianto, è la situazione che riguarda i trapianti di pancreas: una situazione che, come apprendiamo dalle parole del dottor Sansalone, non presenta problemi di lunghe liste d’attesa. Ma anche una situazione che chiama in causa problemi di sensibilizzazione generale nei confronti di una procedura che costituisce già un’opzione terapeutica e, nondimeno, una situazione che implica problemi di differente convincimento da parte delle varie “categorie” mediche.
Dottor Sansalone, anche l’attività di trapianto di pancreas soffre di una inadeguata donazione d’organo? Quali sono mediamente i tempi d’attesa per ricevere un pancreas, qui all’Ospedale Niguarda?
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone (U.O. Trapianti di rene e
pancreas):
Io ritengo che, verosimilmente,
quello del trapianto di pancreas sia l’unico settore di trapianti in cui non
manchino organi da trapiantare. Quanto ai tempi d’attesa, in questo Centro
trapianti dell’ospedale Niguarda (così come negli altri pochi Centri nei quali
viene eseguito questo tipo di trapianto) in media si riesce a ricevere un
pancreas entro 4-5 mesi da quando si viene messi in lista. Quindi non c’è una
lunga attesa, né pertanto un problema di richieste superiori alle donazioni.
Semmai c’è un problema al contrario, dovuto al fatto non vi è da parte dei
diabetologi la convinzione dell’utilità di questo trapianto. Essendo
naturalmente i diabetici sotto la giurisdizione clinica dei diabetologi, è
chiaro che una maggiore sensibilità da parte dei diabetologi sui vantaggi
offerti dal trapianto del pancreas sia un argomento di fondamentale importanza.
Oggi i pazienti diabetici possono realmente avvantaggiarsi di questa procedura,
una procedura che ormai offre risultati eccellenti: qui all’ospedale Niguarda,
attualmente, sul totale dei diabetici sottoposti a trapianti di pancreas
abbiamo più del 92-93% di pazienti che, a distanza di circa tre anni dal
trapianto, sono non più diabetici. Sono persone, quindi, restituite a uno stile
di vita uguale a quello di qualsiasi altra persona sana, e non soltanto per ciò
riguarda l’alimentazione: possono infatti anche praticare attività fisica
quanto vogliono, possono avere una loro vita sessuale e, più in generale, sono
restituiti a una vita di relazione, affettiva e lavorativa esattamente come
quella della popolazione normale. Ovviamente rimane il fatto che devono
sottoporsi a dei controlli regolari in ospedale soprattutto perché seguono
delle terapie immunosoppressive (con farmaci di ultima generazione che non
provocano grandi effetti collaterali), ma, per il resto, conducono per
l’appunto uno stile di vita normale.
“Stato dell’arte” del trapianto di fegato vs. il
trapianto di pancreas.
Dottor De Carlis, è noto che il trapianto di fegato non è più una terapia “sperimentale”. Ma può realmente, questo tipo di trapianto, essere oggi considerato una vera e propria terapia consolidata, una terapia “reale” per i tanti pazienti affetti da gravi patologie epatiche?
■ Dottor
Luciano De Carlis (U.O. Trapianti del fegato):
Il trapianto di fegato, ormai (e così come confermato
dalle varie “consensus conferences” che sono state svolte a livello mondiale),
è una terapia consolidata. Noi qui all’Ospedale Niguarda di Milano eseguiamo
circa 70 trapianti di fegato all’anno, con una percentuale di risultati
positivi annuali che supera il 95%. Complessivamente, in quest’ospedale, sono
stati eseguiti più di 800 trapianti di fegato. Un’attività, questa, che è stata
implementata notevolmente in questi ultimi anni, anche con trapianti di “split
liver”, cioè di trapianti di parti di fegato da donatore cadavere oppure, nel
caso di donatore vivente, di trapianto di parti di fegato da donatore
consanguineo vivente. Una delle ragioni per cui il trapianto da vivente ha un
suo significato in pazienti selezionati per il trapianto di fegato è
costituito, in particolare, dalla similarità genetica tra donatore e paziente
che deve ricevere il trapianto, poiché in genere si tratta di consanguinei
(genitori-figli, fratelli-sorelle, etc.): ciò consente di usare efficacemente
la terapia immunosoppressiva, anche in maniera ridotta; perciò, proprio perché
nel trapianto da vivente è possibile ridurre la terapia di immunosoppressione,
lo stesso tipo di trapianto offre un buon risultato anche in pazienti affetti
da patologie epatiche gravi, che invece (con altro tipo di trapianto, non da
vivente - n.d.a.) potrebbero comportare notevoli problemi con terapie
immunosoppressive più massicce. Quanto, invece, al trapianto di fegato da
cadavere, si tratta di un tipo di intervento che ormai viene eseguito
regolarmente, e con risultati veramente eccellenti, in tutte le categorie di
età: lo si esegue perciò anche nel bambino per il trattamento di tutte le patologie
congenite, lo si esegue nell’adulto, nel giovane e anche nell’anziano. In
genere, in Italia si considera di non superare i 60-65 anni di età, soprattutto
in presenza di complicazioni di tipo cardiovascolare che, così com’è stato
osservato in pazienti ultrasessantacinquenni, possono comportare alti rischi di
mancata riuscita dell’intervento. Qualora invece non vi siano controindicazioni
cardiovascolari, né altre particolari controindicazioni di carattere generale,
noi non escludiamo affatto per il trapianto di fegato anche pazienti di età
molto avanzata.
Complessivamente, si può affermare che il trapianto
di fegato è diventato una forma di terapia reale di varie forme di
insufficienza epatica, così come di varie forme di neoplasie del fegato: si tratta
dunque, ormai, di un trattamento consolidato, da considerare come fosse un
intervento di chirurgia maggiore, e non più come un tipo di intervento
sperimentale, quale invece poteva essere considerato 10-15 anni fa. Che il
trapianto di fegato sia una delle opzioni terapeutiche lo hanno capito anche
gli internisti, ovvero gli epatologi: oggi la tecnica chirurgica del trapianto
di fegato è diventata molto standardizzata e anche molto raffinata sotto tutti
i punti di vista, pur rimanendo l’intervento più complesso nell’ambito della
chirurgia generale specialistica. Oggi un trapianto di fegato dura in genere
dalle 4-6 ore, non più le 24 ore che, in media, lo stesso tipo di trapianto
richiedeva vent’anni fa. Inoltre disponiamo di farmaci antirigetto eccezionali,
legati ad effetti collaterali davvero minimi. Ormai, quindi, il trapianto di
fegato può essere offerto a tutte le persone che siano affette da una grave
patologia epatica, anche di tipo neoplastico, posto ovviamente che non vi siano
delle controindicazioni, quali per esempio quelle di tipo cardiologico, oppure
di tipo respiratorio o, ancora, posto che non vi siano delle neoplasie troppo
estese, perché in quest’ultimo caso otterremmo, dopo il trapianto e le terapie
di immunosoppressione, una ripresa della patologia neoplastica anche in maniera
galoppante.
Dottor Sansalone, stando a quello che è il perfezionamento dello “stato dell’arte” del trapianto di pancreas, può proprio questo tipo di trapianto rappresentare un’opzione praticabile anche su scala più vasta, per i tanti diabetici insulinodipendenti? E se sì, lo è solo per i diabetici più giovani, o anche per i pazienti in età avanzata?
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone (U.O.
Trapianti di rene e pancreas):
Questa è
una domanda molto interessante, che mi dà modo di fare alcune precisazioni
particolarmente importanti circa le procedure di selezione del paziente. Una
prima precisazione riguarda la meticolosità degli studi pre-operatori che vanno
eseguiti sul paziente diabetico, dacché solo studiando approfonditamente il
paziente possiamo essere in grado di sapere quali e di quale entità saranno i
vantaggi che il paziente stesso potrà ottenere dal trapianto di pancreas.
Premesso che riteniamo che il paziente che abbia un problema di controllo
glicemico segua una terapia insulinica più che adeguata – e io parto dal
presupposto che le terapie insuliniche messe a punto dai diabetologi siano sempre
terapie ottime – sappiamo anche, tuttavia, che vi è un sottogruppo numeroso di
pazienti diabetici insulinodipendenti in cui la terapia insulinica non è in
grado di proteggerli dagli effetti collaterali della malattia, effetti che oggi
siamo in grado di valutare con precisione proprio grazie a una serie di studi
molti accurati, molto approfonditi, e che in particolare comprendono: fundus
oculi, per valutare le condizioni di partenza di retinopatia; elettromiografia
eseguita sugli arti inferiori; curve da carico glicemico con controllo della
glicemia durante le 24 ore; studi di cardiocircolo e esami di coronarografia;
biopsia renale, per valutare i danni a carico dei reni. Disponiamo quindi,
oramai, di una serie di metodiche che ci consentono di quantificare esattamente
i danni provocati dal diabete nonostante la terapia insulinica ben condotta.
Sulla base di questo, quindi valutando attentamente il grado di insulto che la
malattia ha prodotto su alcuni organi, noi siamo in grado di decidere se un
paziente merita di essere considerato o no per il trapianto.
Dottor Sansalone, sulla base di questi studi che eseguite sulla popolazione diabetica, in quale fascia d’età il rischio che la malattia diabetica danneggi i vari organi si dimostra più grave? E questo rischio, che come ha spiegato è connesso al ripetersi dei vari episodi di scompenso glicemico, perché può rendere improponibile il ricorso al trapianto di pancreas nel trattamento del diabete?
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone (U.O.
Trapianti di rene e pancreas):
Come ho
già avuto modo di spiegare, vi è una consistente quota di pazienti diabetici –
pazienti affetti da diabete mellito sorto durante l’infanzia o la prima
infanzia – che nonostante la terapia insulinica non riescono a controllare bene
il metabolismo glucidico e che dunque vanno incontro a numerosi episodi di
iperglicemia e di ipoglicemia: episodi, questi, che nel lungo periodo provocano
danni gravissimi a carico dei vari organi e che rendono via via più grave il
grado d’insulto della malattia diabetica sui vari organi. Ebbene, noi oggi
sappiamo che, quando questi pazienti diabetici raggiungono l’età di 50-55 anni,
essi presentano dei danni vascolari, cerebrali, neurologici, nefrologici tali
da non essere più recuperabili e – sottolineo – non più recuperabili neanche
qualora venisse eseguito un trapianto di pancreas che riuscisse a riportare
alla condizione di euglicemia. L’altra precisazione importante, allora, è che
l’età è un fattore dirimente: pertanto, i pazienti diabetici che noi riteniamo
debbano essere proposti al chirurgo per il trapianto d’organo sono quelli che,
nonostante la terapia insulinica, cominciano a presentare quei problemi di
danno a carico dei vari organi, danni che però proprio con un trapianto di
pancreas possono ancora essere fermati, prima che divengano irreversibili.
Quella, precisamente, è la sottopopolazione di diabetici che merita il
trapianto di pancreas, ovvero che dovrebbero essere sottoposta al trapianto nel
più breve tempo possibile, prima che la malattia diabetica provochi sui vari
organi un grado d’insulto tale da non rendere più proponibile il paziente per
il trapianto.
Considerazioni finali sull’attività di doppio trapianto.
Trapianto combinato e diminuzione del rischio di rigetto.
Dottor Sansalone, quali tipi di doppio trapianto vengono più frequentemente eseguiti qui all’Ospedale Niguarda? E quali sono le Sue considerazioni sull’attività di doppio trapianto più complessivamente considerata? Quali le prospettive?
■ Dottor Cosimo Vincenzo Sansalone (U.O.
Trapianti di rene e pancreas):
Qui
all’Ospedale Niguarda di Milano, quella del doppio trapianto è un’attività
ormai frequente. Mi riferisco in particolare al trapianto del rene e al
trapianto di pancreas combinati, un tipo di intervento che (qui come in altri
Centri trapianti, in Italia e in altri Paesi) viene eseguito anche in molti
pazienti diabetici allorché gli stessi, quando arrivano ad essere considerati
per il trapianto di pancreas, abbiano il rene già non più funzionante. Ma un
altro tipo di doppio trapianto che, sempre qui all’Ospedale Niguarda, eseguiamo
con una certa frequenza è quello di fegato-rene, utile nei malati affetti da
cirrosi epatica e che vadano incontro a un’insufficienza renale. Da ricordare,
pure, è il doppio trapianto cuore-rene, che anche ultimamente è stato eseguito
in pazienti in lista d’attesa per il trapianto di cuore (dodici casi, nella
fattispecie) e nei quali lo sviluppo d un’insufficienza renale era stato
causato proprio dall’insufficienza cardiaca di cui erano portatori.
Stante,
dunque, l’intensità e la frequenza dell’attività di doppio trapianto praticata
in quest’ospedale, è opportuno allora esprimere un’ultima considerazione sul
doppio trapianto fegato-pancreas che in questo stesso ospedale Niguarda, per la
volta in Italia, è stato eseguito e che da più parti è stato considerato
“straordinario”: in realtà, la “straordinarietà” di quell’intervento deriva
soltanto dal fatto che l’organo del fegato e quello del pancreas non erano mai
stati trapiantati assieme prima d’allora; ma in realtà, come già ricordato,
l’attività di doppio trapianto – cioè di due organi in un intervento combinato
– noi la eseguiamo già da tempo.
Ciò che
invece è particolarmente interessante evidenziare, e che sempre più stiamo
rilevando proprio nel corso della nostra attività di trapianti combinati, è che
il doppio trapianto presenta un grande vantaggio anche dal punto di vista
immunologico: abbiamo infatti constatato che nel doppio trapianto - e mi
riferisco in particolare al doppio trapianto di cuore e rene – gli organi
tendono a rigettare meno. Lo stesso dicasi per il trapianto di fegato-rene:
anche in quel caso, eseguendo un trapianto combinato, abbiamo constatato che
l’uno e l’altro degli organi (dunque sia il fegato, sia il rene) rigettano meno
di quanto invece non rigettino nel paziente trapiantato solo sul fegato oppure
trapiantato solo sul rene. Un risultato, questo, i cui i meccanismi
eziopatologici non ci sono ancora perfettamente noti e che probabilmente è da
ricondursi a particolari dinamiche immunologiche di tolleranza che si creano
nel paziente. Ma è anche un aspetto che apre campi d’indagine e problematiche
scientifiche di grande fascino, e che sicuramente fa del doppio trapianto una
procedura d’interesse straordinario soprattutto per quanto riguarda la
sopravvivenza a distanza degli organi trapiantati. Quindi, anche da questo
punto di vista, mi sentirei di affermare che il doppio trapianto
fegato-pancreas qui recentemente eseguito non è un ‘evento’ che non si ripeterà
più: anzi, siamo convinti che la procedura potrà dimostrarsi molto utile in un
grande numero di pazienti (pazienti che presentino caratteristiche cliniche
simili a quelle che presentava il paziente da noi trapiantato per il fegato-pancreas),
i quali per l’appunto potrebbero giovarsi dei molteplici vantaggi offerti dal
doppio trapianto.
Riferimenti utili: Ospedale Niguarda Piazza Ospedale Maggiore, 3 Milano Tel. 02.64441 (Centralino) U.O. Trapianti del fegato e U.O. Trapianti del fegato e del pancreas: presso Reparto
“Pizzamiglio” dello stesso ospedale. |
Marina Palmieri
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- Bollettino Cardiologico N. 138 Gennaio-Febbraio 2006
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