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L’ascolto e la parola

 

- di Marina Palmieri - Info Pubblicazioni, "L’ascolto e la parola"
Marina Palmieri, www.COMUNICARECOME.it

 

 

C’è un gran fiorire, in questi tempi, di iniziative culturali che mirano a riportare l’attenzione della gente sull’importanza di una musicalità più primaria, aderente ai ritmi più naturali e profondi dell’uomo.

Già negli ambienti di maggior prestigio accademico quali lo Schiller Institut e le associazioni verdiane c’è un’accanita polemica sulla necessità di tornare a un diapason più “umano” e “naturale”. La questione non è nuova. Nel 1988 l’iniziativa dello stesso Istituto, con l’apporto di oltre 2000 artisti di fama internazionale ma anche di eminenti scienziati europei, sfociò in un disegno di legge al Senato per abbassare le accordature degli strumenti musicali e delle voci che, dicono gli esperti, “sfasano” e falsificano la naturalezza dei timbri, con grave danno anche nella percezione degli ascoltatori.

E nel ’96, all’”Opera” di Washington, così tuonò Placido Domingo: “Questo rende quasi impossibile cantare, ci strangola tutti. Verdi chiese una legge per far tornare il La a 432 vibrazioni? È l’ideale.” Ora, pur non essendo chi scrive un’esperta di registri musicali, credo che certe insistenze su suoni più ‘puri’, su frequenze acustiche più ‘naturali’ e, più in generale, sul bisogno di proteggere l’autenticità del patrimonio musicale siano provvidenziali per la collettività. Rientrano negli sforzi di preservare l’essenza dell’arte tutta. Quest’attività di “vigilanza” sull’eredità culturale del nostro Paese è e diventerà sempre più importante: vivremo sempre più immersi nel sistema di manipolazione tecnologica di suoni e immagini e in quello di “spettacolarizzazione” a oltranza e, allora, difendere le origini dell’operato artistico sarà indispensabile, anche per poterlo trasmettere intatto alle future generazioni. In questo senso, l’attenzione al ‘suono’ è quanto mai propizia. Del resto, anche i migliori poeti e romanzieri, per poter esprimere il proprio immaginario, i propri stati d’animo, hanno spesso affidato l’ispirazione della loro penna agli stati più naturali della musicalità: la Woolf consegnò la sua memoria al ritmo delle onde, Leopardi restò in ascolto dei canti notturni di qualche pastore errante, D’Annunzio lasciò parlare il ticchettìo della pioggia nel pineto e Palazzeschi gli spasimi cadenzati di una fontana malata per comunicare un suo prostrante stato di malinconia.

Perché il suono è qualcosa di più remoto e primario di quanto sarà poi parola: è, come ricordano i maestri di musica indiana, “una manifestazione del silenzio”, un qualcosa d’immateriale che risuona improvvisamente dalla quiete, per poi trasformarsi gradualmente in parola. Un richiamo, in tanto caos verbale di oggi, quanto mai utile e indicativo.

 

 

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Info Pubblicazioni:

- l’Informatore Vigevanese, 23 maggio 1996

 

 

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