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Quegli allenamenti alla resistenza nella vita
Le manifestazioni della Grande Atletica Leggera suscitano ormai diffuso interesse fra il pubblico, catalizzano l’attenzione dei media, smuovono massicci investimenti pubblicitari. Meglio così, visto che fino a pochi decenni fa l’atletica era considerata, e trattata, come la “cenerentola” degli sports.
Eppure questo sport, “puro” per eccellenza, da che mondo è mondo è sempre stato, di fatto, il leone di tutti gli altri: sia perché ne costituisce la base atletica, sia, soprattutto, perché forma, nel senso più globale, la capacità di resistenza dell’individuo. Una resistenza che appare fisicamente, ma che appartiene prima di tutto alla dimensione interiore dell’essere, alla sua forma mentale e psichica, con nette ripercussioni sul campo della vita stessa. Quando chi scrive si dedicava al mezzofondo (vent’anni fa, purtroppo, era interdetto l’accesso femminile al fondo dei 5.000 e 10.000 metri), lo Stadio dei Marmi e quello della Farnesina di Roma erano falcati da giovani che davano l’anima sui campi, ben coscienti di quanto modesta potesse rimanere l’aspettativa economica.
Ma anche in molti “grandi” dell’atletica i successi economici, sperati o raggiunti, non stravolsero mai la passione sportiva né la schiettezza del comportamento e, con la conoscenza di alcuni, mi feci l’idea che certa sostanziale modestia e semplicità di modi fosse attribuibile proprio alla durezza implacabile della lunga e solitaria disciplina. Come Mennea che troncava le sue barzellette per scattare a cedermi, mezza clandestina ai ritiri al Manin di Milano, le sue macedonie di frutta se lasciata a dopo dal deferente cameriere, o come, anni prima, l’amico di famiglia Pino Dordoni che mantenne, di fronte a certe avversità personali, il vero spirito del marciatore, tenace e silenzioso, e che, quando invitato a casa da mio padre, non voleva mai lasciare sulla tovaglia un solo pezzetto di pane, memorie di altre carenze alimentari del dopoguerra. Nel mio piccolo, ricordo anche le allucinazioni (per il calo di zuccheri) al suono della campanella dell’ultimo giro di pista, e poi, negli spogliatoi, quei collettivi conati di vomito che ci assalivano per lo sforzo prolungato. E, chi al primo chi al decimo posto in arrivo, si era sempre tutte solidali. Perché era come aver affrontato la vita in quella resistenza, e l’apparente solitudine della corsa era in realtà un modo di “tirare” e spronare chi ci era vicina nella sfida con se stessa, con la soglia della tenacia. Una grande lezione di vita, quella: perché la resistenza fisica di quello sport “povero” corroborò nel frattempo anche la resistenza morale alle intemperie dell’esistenza e ai momenti in assoluto più duri che non sarebbero tardati a venire.
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- l’Informatore Vigevanese, 5 settembre
1996
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