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Vigevano: un salotto d’arte, una culla di cultura.
Quando si parla di turismo il pensiero va facilmente a mete esotiche e luoghi distanti: il mito della irraggiungibilità, lo sappiamo, fa la sua parte da leone nei desideri umani e sospinge lontano. Proviamo, tuttavia, a riscoprire l’incanto di luoghi più prossimi parlando, stavolta, di una splendida città lombarda: Vigevano. Antico borgo dell’alto medioevo e, successivamente, libero comune, Vigevano conobbe i suoi massimi splendori dapprima con i Visconti (XIV sec.) e quindi con gli Sforza (dal XV sec.) sotto il dominio dei quali divenne, nel 1532, città. Celeberrimo il suo centro storico, in particolare: Piazza Ducale (considerata una delle più belle d’Italia), progettata, sembra, da Leonardo, esemplare modello architettonico del Rinascimento; il Castello Sforzesco (la “rocca vecchia”, il “Maschio”, la “strada vecchia” – suggestiva e inquietante via di fuga a cavallo – risalgono al ‘300 e al volere del podestà Luchino Visconti; sul finire del ‘400 il duca Lodovico Maria Sforza detto Il Moro ne farà, col contributo del Bramante, una grandiosa residenza principesca); la torre del Bramante, iniziata nel lontano 1198. Vanno pure ricordati il Duomo consacrato a Sant’Ambrogio, dalla insolita facciata concava, con il suo Museo ricchissimo di tesori donati da Francesco II Sforza, altre chiese (S. Francesco, S. Pietro Martire) tipiche dell’architettura gotico-lombarda; la “Sforzesca”, residenza di caccia e fattoria-modello voluta da Ludovico il Moro e progettata, pare, da Leonardo, qui ospite.
Realtà artistiche e architettoniche che nel Rinascimento fecero di Vigevano una delle più invidiate corti d’Europa e che oggi costituiscono il vanto della Lomellina, territorio già decantato da Plinio per la sua natura lussureggiante, qui attraversata dalle acque trasparenti del fiume Ticino (antica strada di collegamento strategico con la Francia). Un salotto, quello di Vigevano, ricco d’arte e di nobili testimonianze dell’epoca. Ma i tempi più vicini hanno fatto di Vigevano anche la culla di altre volontà artistiche, consumate nel segno della passione per la cultura; non dobbiamo dimenticare, infatti, che Vigevano ha dato i natali allo scrittore Lucio Mastronardi (1930) e alla “divina” Eleonora Duse (1858). Il primo (morto suicida nel 1979) oramai considerato tra i grandi della narrativa del nostro secolo, specie per i romanzi “Il calzolaio di Vigevano” (1959) e “Il maestro di Vigevano” (1962): oltre che per la novità dei suoi materiali linguistici, Mastronardi s’impose all’attenzione per la carica arguta e aggressiva con la quale delineò le trasformazioni sociali del sue ambiente; le sue opere sono ora raccolte in “Gente di Vigevano”. Eleonora Duse, com’è noto, fu interprete impareggiabile delle eroine del teatro shakespeariano, degli autori francesi dell’ottocento e delle opere di D’Annunzio, suo pigmalione artistico e suo amante. Anche questo vissuto più contemporaneo va considerato quando si parla di Vigevano. Non mi meraviglia troppo, però, il fatto ch’esso non sia già adeguatamente noto a chi pure ama e fa frequente visita a questa città. Passo tutti i giorni per le sue stradine, per i suoi vicoli, fra le sue fiere e linde case antiche, vi passo sempre con piacere eppure, sempre, mi si stringe il cuore per certi particolari: la facciata della casa natale di Mastronardi (al quale, per onor del vero, è tuttavia dedicata la Biblioteca comunale) è ormai tutta scrostata, le imposte delle finestre stanno su a fatica, vicino al portone, accanto alla lastra che, pallidamente, ricorda “In questa casa nacque..”, è affisso, sbilenco, un cartello: “Affittasi”. Aggirandomi, poi, per Piazza Ducale, capito sempre davanti all’albergo in cui nacque la “divina”: la lastra che ne ricorda i natali, anche in questo caso, c’è, eccome, retorica al punto giusto e perfetta per i canoni estetici del decadentismo, ma occorre fatica a leggerla, fuliggine e polvere riempiono gli spazi delle lettere e delle date impresse a rilievo, e, poco più sotto, insegne e vetrate sporche di un grande magazzino da anni in disuso, lasciate imbrattate di calce e vernice, violentano l’occhio che ricerca, a fatica, le fattezze del volto dell’attrice (il ricalco è pure avvilito dalla polvere), mortificano la mente che sta riandando alle memorie artistiche di allora. Negligenze che parlano da sole, che dimostrano dubbia progettualità culturale nei confronti della contemporaneità. E i visitatori più attenti e colti, poi, i turisti più esigenti, cosa ne penseranno? Non ci resta che appellarci, magari per via spiritica, all’animo mecenatico del Moro?
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- mensile “Artecultura”, Gennaio 1996, p. 33 - Rubrica Turismo
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